È morto Ferdinando Carretta: nel 1989 sterminò la famiglia e confessò la strage in tv
A Parma uccise genitori e fratello. Rintracciato solo nove anni dopo, viveva nella casa comprata con l’eredità
Ferdinando Carretta è morto a Forlì, dove viveva da quando era tornato in libertà, in una casa che aveva acquistato con l'eredità della famiglia. Viveva nel quartiere Ronco, peraltro uno dei più colpiti dalle alluvioni dei giorni scorsi. A dare l'allarme è stato un vicino di casa che non lo vedeva da qualche giorno: quando i vigili del fuoco sono entrati in casa hanno trovato il cadavere. La morte risalirebbe a qualche giorno fa.
Uno sguardo vuoto, quasi immobile, come se la vita dei suoi occhi si fosse perduta nei misteri dell’anima, è quello che Ferdinando Carretta consegna agli spettatori di "Chi l’ha visto?" il 30 novembre del 1998 ed è quello che ci resta di lui, lo stesso sguardo rimandato dalle foto dei giornali o della tv, uno sguardo lontano da chi gli parla, persino estraneo a ciò che dice davanti alle telecamere: «Ho preso quella pistola e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello». Continua a parlare come se non fosse la sua confessione, anche quando commenta che era stato «un atto di follia. Un atto di follia completa».
Pochi giorni prima a Londra un agente di Scotland Yard l’aveva fermato per un divieto di sosta, mentre faceva il suo lavoro da Pony Express, identificandolo come «Italiano, di Parma - nome intero Antonio Ferdinando Carretta - scomparso dal lontano 1989». C’era scritto così nel verbale. Lui non disse niente, aspettò che arrivasse su il giornalista della Rai per raccontare quasi senza emozione la sua storia terribile. Era l’estate di una vita fa, il 4 agosto, un camper e il giallo di una famiglia scomparsa. C’era la sua foto sui giornali, accanto a quelle delle vittime, suo padre Giuseppe, capocontabile in una fabbrica di vetri, sua madre Marta, una casalinga, e il fratello minore, Nicola, un sieropositivo che stava cercando di disintossicarsi. Fernando era un ragazzo timido e chiuso, che sentiva di non ricevere le giuste attenzioni da parte dei genitori, tutti concentrati sul fratello e i suoi problemi con la droga.
Per questo uccise la sua famiglia, con una Walter calibro 6,35, scappando per Londra subito dopo aver sepolto i corpi. Al processo lo giudicarono incapace di intendere e volere. Aveva compiuto quella strage perché si sentiva oppresso, e confinava la sua vita e la sua mente in un delirio che prendeva strani forme, e che gli psichiatri chiamano «appiattimento affettivo»: significa, come spiega Massimo Picozzi che «il pensiero delle parole impiegate per esprimerlo non si portano dietro vivacità ed emozioni». Come in quelle foto sui giornali, in tutti quei sorrisi che non sorridono, con gli occhi impietriti. Come nello sguardo che aveva alla tv quando gli chiesero soltanto: «Allora, cos’è successo il 4 agosto del 1989?».
Pubblicato su Il Mattino di Padova