Omicidio di Saman Abbas, parla il fratello Alì: “Con la mamma guardammo lo zio prenderla per il collo e portarla nella serra”
Il giovane in lacrime al processo che vede imputati cinque dei suoi familiari: «Li ho sentiti fare dei piani e parlare di scavare»
REGGIO EMILIA. Il momento chiave per Alì Haider è arrivato al termine
di una deposizione che aveva incominciato così: «Voglio parlare. Voglio
dire tutta la verità». Aveva pianto rivedendo la sorella diciottenne nei
video del tribunale di Reggio Emilia, aveva già passato molte ore dietro
al paravento che lo proteggeva dalle possibili pressioni degli imputati
per l'omicidio: suo padre, suo zio, e i due cugini. Aveva ammesso di
aver mentito, in passato, davanti agli inquirenti, per le minacce subite
dai genitori.
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Era entrato in contraddizione su dettagli secondari, aveva
speso una miriade di «non ricordo», aveva detto «sono agitato», oppure
«ho bisogno di una pausa», ma sulla notte del delitto, il 30 aprile
2021, è stato lucido: «Ho visto tutta la scena. Mio padre, Shabbar
Abbas, che accompagnava Saman verso le serre. Lo zio Danish che la
prendeva per il collo e la trascinava nell'ombra. I cugini Nomanoulaq
Nomanoulaq e Ikram Ijaz che attendevano nascosti. Li ho visti in
faccia». Lui era rimasto in casa con la madre, Nazia Shaheen, tuttora
latitante.
Mimando la scena del braccio di Danish Hasnain che, da dietro,
cinge il collo della ragazza pakistana, uccisa per strangolament
(secondo l'autopsia), perché rifiutava le regole famigliari dell'Islam
radicale e un matrimonio combinato in patria, suo fratello minore,
all'epoca 16enne, ha restituito all'accusa tutti i principali elementi
che, per un tecnicismo procedurale, erano stati tolti dal fascicolo
nella precedente udienza. Poteva avvalersi della facoltà di non
rispondere, Alì Haider, anche perché non è stato ascoltato in qualità di
testimone, ma come «indagabile», e la procura dei minori di Bologna sta
appunto valutando se iscriverlo tra gli indagati, in concorso, per un
reato commesso nell'azienda agricola in cui tutti i protagonisti di
questa vicenda vivevano a Novellara, Bassa Reggiana: omicidio,
distruzione di cadavere e aggravanti.
Per sua stessa ammissione, il ragazzo ha informato i genitori delle
conversazioni che Saman intratteneva sui social con il fidanzato, Saquib
Ayub, e le assistenti sociali che la seguivano, nonostante sapesse che
quello fosse il motivo della disapprovazione che tutti i parenti
nutrivano contro di lei. «Mi picchiava» e «diceva che se non gli avessi
mostrato le chat di mia sorella, mi avrebbe appeso alle serre a testa in
giù», ha detto in riferimento al padre, incalzato dal difensore di uno
dei due cugini (avvocato Scarcella, per Noumanoulaq Noumanoulaq), al
fine di giustificare il suo ruolo in un crimine, il cui movente ha
definito usando una vocabolo pakistano che il suo interprete non sapeva
bene se tradurre con «onore» o con «mancanza di rispetto», ma che invece
era solo il libero arbitrio di Saman.
Pubblicato su Il Mattino di Padova