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Naufragio di Crotone, tra le vittime una giocatrice pakistana di Hockey. Portava il figlio malato di 3 anni in Italia: gara di solidarietà per salvarlo

Shahida Raza, 27 anni, era sul barcone che si è disintegrato col bambino semiparalizzato da un ictus

Aveva affrontato il viaggio in barcone dalla Turchia nella speranza di raggiungere l'Italia e qui far arrivare il figlio di 3 anni bisognoso di cure mediche. Lo ha raccontato alla Bbc la sorella di Shahida Raza, la 27enne giocatrice pachistana di hockey e calcio morta nel naufragio di Cutro. Ed ora per il piccolo, sopravvissuto alla traversata, è partita una gara disolidarietà. Saadia Raza, che vive a Quetta, la città del sudovest del Pakistan da dove era partita anche Shahida, ha detto di aver ricevuto dalla sorella una telefonata quando ormai il viaggio stava per concludersi. «Ringraziava Dio di essere quasi arrivata - ha raccontato - Ha detto che aveva avuto paura che potesse succederle qualcosa mentre si trovava in mare. Ci ha detto che non poteva crederci, che avrebbe chiamato suo figlio e l'avrebbe fatto arrivare per farlo curare». Poi la linea è caduta e non l'ha più sentita. «La sola e unica ragione per cui ha affrontato questo viaggio - ha detto ancora Saadia - era il figlio di 3 anni. Non stava bene, parte del suo cervello era stato danneggiato in seguito a un ictus che il bimbo aveva sofferto a 40 giorni in seguito a febbre alta. Una parte del suo corpo, dalla testa ai piedi, è paralizzata».

La giocatrice, della minoranza sciita degli hazara, aveva portato il figlio in diversi ospedali di Karachi, dove però non erano stati in grado di curarlo, lamenta la sorella, consigliandole di portarlo all'estero. «Diceva - conclude Saadia - di non poter vedere il figlio ridotto così, di volere che camminasse come un bambino normale, che quello era il suo unico desiderio». Una testimonianza arriva anche dalla sua più cara amica, Sumaiya, secondo la quale, nonostante Shahida avesse giocato anche a livello internazionale, una volta smesso non era riuscita a trovare un lavoro. Aveva paura del mare, ha raccontato, e aveva informato solo all'ultimo minuto la sua famiglia della decisione di partire. «Adesso vogliamo soltanto che ci restituiscano il suo corpo, niente di più - dice l'amica - Ma nessuno ci dà informazioni o ci dice cosa fare». Un portavoce fa sapere che l'ambasciata pachistana a Roma «resta attivamente impegnata con le autorità italiane per il benessere dei sopravvissuti e per il rimpatrio delle salme». 

Pubblicato su Il Mattino di Padova